FAQ
Ipofosfatasia (HPP)
Cos’è l’ipofosfatasia?
L’ipofosfatasia (HPP) è una rara patologia metabolica ereditaria causata da mutazioni a carico del gene ALPL che codifica per la fosfatasi alcalina tessuto non-specifica (TNALP). Tale enzima è presente in tutti i tessuti, ma soprattutto a livello delle ossa, dove svolge un ruolo fondamentale nel processo di mineralizzazione scheletrica. L’alterazione biochimica caratteristica della malattia è rappresentata da una bassa attività della ALP sierica, che costituisce un elemento diagnostico caratteristico, in associazione ad una mineralizzazione difettosa dello scheletro e/o dei denti. La patologia può essere ereditata con modalità autosomica recessiva, associata a tutte le forme severe, o con modalità dominante, tipica dei fenotipi più lievi. L’identificazione precoce della patologia è fondamentale, non solo nelle forme severe, in cui l’avvio tempestivo della terapia specifica permette di modificare radicalmente il quadro clinico, ma anche nelle forme lievi per un’adeguata presa in carico e terapia sintomatica
Con quale frequenza si manifesta la malattia?
L’HPP è distribuita in tutto il mondo, anche se con una prevalenza molto variabile. La prevalenza stimata della forma grave di HPP è particolarmente alta in Canada (1:100.000), mentre in Europa è di circa 1:300.000. Per quanto riguarda le forme più lievi, comprese quelle degli adulti, la prevalenza è difficile da stimare a causa della varietà della presentazione clinica e della frequenza dei casi non diagnosticati. Tuttavia, secondo alcune stime, la prevalenza di forme di HPP a espressività meno grave nella popolazione europea è circa 1/6370.
Qual è la causa della malattia?
L’ipofosfatasia è una malattia causata da mutazioni del gene che codifica per la fosfatasi alcalina tessuto non-specifica (TNALP), un enzima ubiquitario, presente in particolare nelle ossa, nel fegato e nei reni.
A livello osseo, l’enzima TNALP svolge un ruolo fondamentale nel processo di mineralizzazione ossea, attraverso la defosforilazione di inibitori della mineralizzazione, come l’osteopontina e il pirofosfato inorganico (PPi) che viene degradato a fosfato inorganico (Pi) e regola la formazione dei cristalli di idrossiapatite, essenziali per la corretta formazione delle ossa. L’accumulo di PPi, quando TNALP è inattiva, compromette una corretta mineralizzazione ossea e si rende responsabile dell’instabilità scheletrica tipica della malattia.
La fosfatasi alcalina, inoltre, è responsabile dell’idrolisi del piridossal-5-fosfato (PLP), la forma attiva della vitamina B6, a piridossale (PL). Il PL è in grado di passare la barriera ematoencefalica, all’interno della quale subisce una nuova fosforilazione per ritornare PLP. Poiché il PLP svolge un ruolo regolatorio importante nel sistema nervoso centrale, la sua carenza è responsabile della sintomatologia convulsiva.
Infine, un altro substrato di TNAPL è la fosfoetanolamina (PEA). Ancora non sono chiare le funzioni del PEA, ma l’accumulo di tale molecola, secondario a una difettosa attività dell’enzima TNALP, è utilizzato come un ulteriore marker diagnostico di HPP.
Quali sono le principali manifestazioni cliniche?
Le manifestazioni cliniche dell’HPP sono estremamente variabili. In base all’età di insorgenza dei primi sintomi, vengono classicamente distinte 4 forme principali (HPP perinatale, infantile, giovanile e dell’adulto), alle quali vanno affiancate altre forme specifiche con caratteristiche peculiari (HPP benigna perinatale, odontoipofosfatasia, pseudoipofosfatasia).
L’HPP perinatale, la forma più severa di malattia, si manifesta in utero con una marcata ipomineralizzazione che determina gravi malformazioni della gabbia toracica e ipoplasia polmonare, tali da causare, nella maggioranza dei casi, la morte per insufficienza respiratoria poco dopo la nascita. I principali sintomi dell’HPP neonatale sono rappresentati da ritardo nella crescita e calo ponderale, rachitismo, ipotonia muscolare, insufficienza respiratoria, e convulsioni vitamina B6-responsive. Altre manifestazioni possibili includono anomalie metafisarie, deformità ossee e frequenti fratture, incurvamento delle gambe, craniosinostosi, alterazioni metaboliche con un possibile secondario coinvolgimento renale.
L’HPP giovanile si caratterizza, invece, per la prematura perdita dei denti decidui, bassa statura, gambe arcuate, cranio dolicocefalo e una caratteristica alterazione metafisaria di polsi, ginocchia e caviglie.
Nell’adulto, l’HPP si manifesta con fratture e pseudofratture ricorrenti che non guariscono, dolori ossei e articolari, facile affaticamento muscolare e alterazioni secondarie ad un’aumentata deposizione di calcio a livello di organi e tessuti. L’odontoipofosfatasia è caratterizzata principalmente da sintomi dentali con prematura perdita spontanea di uno o più denti senza evidenza di rachitismo o osteomalacia
Come si esegue la diagnosi?
I dati clinici, i reperti radiografici e la valutazione dei biomarcatori, costituiscono i principali elementi atti a guidare il clinico nella formulazione di una corretta diagnosi. Le principali manifestazioni cliniche e i risultati radiografici dovrebbero porre il sospetto clinico di HPP. L’ulteriore approfondimento diagnostico dovrebbe prevedere la dimostrazione di livelli di ALP inferiori alla norma per età, oltre che livelli aumentati dei metaboliti che si accumulano secondariamente al deficit di ALP, quali il piridossal-fosfato (PLP) su sangue, che costituisce un marker sensibile e specifico, e la fosfoetanolamina (PEA) su urine, dosabile nell’ambito della cromatografia degli aminoacidi urinari. Inoltre, è possibile il riscontro di ipercalcemia e ipercalciuria, che potranno, invece, mancare nelle forme a esordio più tardivo. Infine, è disponibile l’analisi molecolare del gene ALPL, richiesta per la consulenza genetica o per confermare definitivamente la diagnosi nei casi più complessi.
Quali sono i trattamenti attualmente disponibili?
Fino a pochi anni fa, il trattamento dell’HPP si è basato su l’impiego di terapie di supporto, attraverso interventi riabilitativi, dietetici e il ricorso a correzione chirurgica nel caso di fratture o gravi deformità scheletriche. Più recentemente, è stata introdotta la terapia enzimatica sostitutiva (ERT) con asfotase alfa, un enzima ricombinante di sintesi, che viene somministrata per via sottocutanea da 3 a 6 volte alla settimana. Sono disponibili evidenze e prove significative a sostegno degli effetti benefici per la sopravvivenza e la funzione in pazienti con HPP perinatale e infantile. Rimangono dubbie le indicazioni all’ERT nelle forme di malattia a esordio più tardivo.
Ipofosfatemia (XLH)
Cos’è l’ipofosfatemia X-linked (XLH)?
L’ipofosfatemia legata all’X (XLH) è un disordine genetico a trasmissione dominante causato da una mutazione del gene PHEX, che codifica per un’endopeptidasi espressa prevalentemente a livello di osteoblasti, osteociti, odontoblasti e cementoblasti. Le mutazioni di PHEX causano un aumento dei livelli circolanti del fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23), un ormone regolatore del fosfato, la cui eccessiva produzione determina un ridotto riassorbimento renale del fosfato, una diminuzione della fosfatemia nel sangue e una riduzione nella sintesi di vitamina D attiva. Tali alterazioni biochimiche rappresentano la causa principale delle caratteristiche cliniche della patologia, quali rachitismo, deformità degli arti inferiori, dolore osseo, difetti di mineralizzazione dei denti e alterazioni della crescita nel bambino, oltre che osteomalacia, entesopatie, artrosi e pseudofratture nell’adulto.
Con quale frequenza si manifesta la malattia?
L’ipofosfatemia X-linked rappresenta la forma più comune di rachitismo ipofosfatemico su base ereditaria, con un’incidenza di 3,9 su 100.000 nati vivi e una prevalenza che varia da 1,7 su 100.000 nei bambini a 4,8 su 100.000 nella popolazione generale.
Qual è la causa della malattia?
L’ipofosfatemia X-linked (XLH) è causata da una mutazione del gene PHEX, il quale regola la produzione del fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF23), un ormone regolatore del fosfato (fosfatonina), che ha il compito di regolare l’eliminazione renale del fosfato e la sintesi di 1,25-diidrossivitamina D (1,25(OH)2D). FGF23 esercita un’azione di inibizione diretta dei co-trasportatori renali di sodio-fosfato (NaPi-IIa e NaPi-IIc) e aumenta l’escrezione urinaria di fosfato. Allo stesso modo, FGF23 sopprime l’espressione della 1-α idrossilasi e stimola la produzione della 24-idrossilasi, riducendo così i livelli di 1,25(OH)2D e l’assorbimento intestinale del fosfato mediato dal co-trasportatore sodio-fosfato (NaPi-IIb). Una prolungata riduzione del fosfato circolante dovrebbe determinare un aumento non solo dei livelli di 1,25(OH)2D ma anche del paratormone (PTH). Ciò nonostante, XLH si caratterizza per ipofosfatemia, livelli inappropriatamente bassi di 1,25(OH)2D ed aumentati livelli circolanti di FGF23 con normale calcemia e PTH, alterazioni queste responsabili delle principali manifestazioni che caratterizzano il quadro clinico della patologia.
Quali sono le principali manifestazioni cliniche?
Clinicamente, la malattia esordisce intorno al 1°-2° anno di vita. I bambini affetti sviluppano fin dall’inizio importanti deformità ossee, soprattutto a carico delle ossa lunghe a rapido accrescimento, che generalmente si rendono evidenti quando iniziano la deambulazione, spesso ritardata.
Altri segni e sintomi caratteristici comprendono: ritardo di crescita, bassa statura, craniosinostosi, malformazione di Chiari, dolore osseo e articolare, debolezza muscolare e frequenti ascessi dentali.
Come si esegue la diagnosi?
La diagnosi di XLH si avvale dell’insieme dei dati clinici, dei reperti biochimici e radiografici del paziente. In presenza di un quadro clinico suggestivo, caratterizzato da una progressiva curvatura degli arti inferiori, ritardo di crescita, dolore osseo e ascessi dentali, il clinico può ricorrere allo studio radiografico, che consentirà di evidenziare i reperti peculiari della patologia, principalmente caratterizzati dalla rarefazione della matrice ossea trabecolare, dallo slargamento delle metafisi con deformazione “a coppa” e dalle irregolarità del piatto epifisario. Le principali alterazioni biochimiche comprendono bassi livelli di fosfato sierico, livelli di 1,25(OH)2D bassi o nella norma, ALP elevata, PTH nella norma o elevato, calcemia e 25(OH)D nella norma, valori di TmP/GFR bassi. Infine, nei casi dubbi o per confermare la diagnosi, è possibile ricorrere all’analisi genetica per identificare la mutazione con perdita di funzione del gene PHEX responsabile della patologia.
Quali sono i trattamenti attualmente disponibili?
La terapia convenzionale dell’XLH si basa sulla somministrazione orale di dosi multiple giornaliere di fosfato e di analoghi della vitamina D attiva. Recentemente, è stata approvato in Europa nel trattamento dell’XLH nei bambini un nuovo farmaco, burosumab, che agisce direttamente sulla causa della malattia, contrastando l’eccessiva attività della proteina FGF23 e riducendo la perdita renale di fosfato. Il trattamento con burosumab ha dimostrato notevoli benefici in termini di riduzione del rachitismo, del dolore cronico, un miglioramento dei livelli di fosforo nel sangue, con conseguenti benefici in termini di forza muscolare e nella capacità di movimento. Nonostante questo farmaco abbia dimostrato un buon profilo di sicurezza e tollerabilità, oltre che risultati terapeutici favorevoli in termini di mineralizzazione ossea e miglioramento dei deficit funzionali, sono in corso di studio i suoi effetti a lungo termine.
Osteogenesi Imperfetta (OI)
Cos’è l’osteogenesi imperfetta?
Con il termine osteogenesi imperfetta (OI) si fa riferimento ad un gruppo eterogeneo di malattie genetiche caratterizzate da alterazioni a carico del tessuto connettivo, determinanti un esteso spettro di manifestazioni cliniche, principalmente caratterizzate da fragilità ossea, deformità scheletriche e altri segni di alterazioni connettivali. Gli individui affetti vanno incontro ad un’aumentata suscettibilità alle fratture anche a seguito di traumi molto lievi. Tuttavia, lo spettro clinico dell’OI è estremamente variabile e comprende molteplici quadri clinici possibili, da forme letali tipicamente neonatali fino a forme lievi che spesso possono eludere la diagnosi.
Con quale frequenza si manifesta la malattia?
L’osteogenesi imperfetta è il disordine ereditario genetico osseo più frequente senza alcuna prevalenza di razza o genere. Si stima che la sua incidenza sia da 1:10.000 a 1:20.000 nati, un dato questo sottostimato a causa della mancata diagnosi delle forme molto lievi che restano spesso misconosciute, e delle forme letali durante il periodo fetale, che causano l’aborto, che non ne consente la diagnosi. La forma lieve si stima essere presente nel 60% circa dei pazienti, mentre la forma letale/grave si verifica in circa 3-4 casi/100.000 nascite. Le forme meno gravi non sembrano superare i 4-5 casi ogni 100.000 nati.
Qual è la causa della malattia?
L’Osteogenesi Imperfetta (OI), nella maggior parte dei casi, è causata da mutazioni con ereditarietà autosomica dominante dei geni COL1A1 e COL1A2 che codificano per le catene α del procollagene di tipo 1. Tali mutazioni determinano un’alterata sintesi del collagene di tipo I, che rappresenta non solo la principale proteina strutturale della matrice ossea, ma anche il tipo di collagene maggiormente rappresentato nei tessuti non ossei come pelle, tendini, legamenti e dentina.
Il collagene tipo I è un eterotrimero, composto da due catene α1 e da una catena α2 che si intrecciano in una configurazione a tripla elica di circa 1.000 aminoacidi. Più di 800 variazioni patogenetiche del gene COL1A1 e più di 400 del gene COL1A2 sono state descritte fino ad ora (Human Gene Mutation Database, aggiornamento del 27/10/2021). Tutti i tipi di mutazioni sono presenti nell’elenco e possono generare sia un difetto qualitativo del collagene, che modifica l’architettura fibrillare, determinando in genere quadri più severi di malattia, sia una riduzione della sintesi di collagene qualitativamente normale, che danno origine a forme di OI più lieve. Inoltre, per la caratteristica costituzione molecolare del procollagene 1, una mutazione che interessa la catena α1 si assocerà ad un fenotipo di malattia molto più severo rispetto ad una mutazione equivalente della catena α2.
Infine, i più recenti studi di biologia molecolare hanno identificato un numero sempre maggiore di mutazioni responsabili del fenotipo dell’OI che vengono trasmesse con modalità autosomica recessiva e non coinvolgono direttamente i geni per il collagene. Tali mutazioni causano difetti della sintesi di altre componenti della matrice ossea o di molecole coinvolte nei processi chiave della sintesi del collagene.
Quali sono le principali manifestazioni cliniche?
L’osteogenesi imperfetta (OI) comprende un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate da fragilità ossea e aumentata suscettibilità alle fratture anche a seguito di traumi lievi.
Altre comuni manifestazioni cliniche includono deformità delle ossa, bassa statura, sclere blu, dentinogenesi imperfetta, perdita dell’udito e complicanze neurologiche o cardiopolmonari.
Nonostante molte caratteristiche siano comuni in tutte le forme di malattia, la severità delle manifestazioni cliniche dipende strettamente dalla gravità della patologia.
L’OI tipo 1 è la forma più lieve, caratterizzata da nessuna o poche fratture e deformità ossee minori.
L’OI tipo 2 è il tipo più grave, caratterizzato da un’estrema fragilità delle ossa, che porta alla morte nel periodo neonatale.
L’OI tipo 3 si presenta con gravi fratture multiple, deformità ossee significative e bassa statura.
L’OI tipo 4 rappresenta una forma di severità moderata di malattia con alta variabilità clinica, in cui i pazienti possono sviluppare poche o molte fratture associate a deformità ossee.
Gli individui con OI di tipo 5 si presentano con caratteristiche cliniche e radiologiche distinte, come la calcificazione della membrana interossea e la formazione di callo iperplastico nelle ossa lunghe, la dislocazione della testa radiale e l’assenza di dentinogenesi imperfetta
Come si esegue la diagnosi?
L’OI dovrebbe essere sospettata in tutti i bambini che presentano un aumento della fragilità ossea, comprese le fratture che si verificano in assenza di traumatismo. La diagnosi si avvale tipicamente dell’anamnesi personale e familiare, dell’esame fisico, dello studio radiografico e, in alcuni casi, di indagini complementari come la densitometria ossea, test biochimici o indagini di sequenziamento del DNA. I principali segni clinico-anamnestici comprendono una storia familiare di fragilità ossea, la presenza di una o più fratture in giovane età, associate o meno ad altri segni quali la colorazione azzurra delle sclere e la dentinogenesi imperfetta (spesso correlata alla severità della patologia). Le caratteristiche radiografiche tipiche includono osteopenia, ossa lunghe arcuate e sottili, compressione vertebrale, apice toracico stretto e ossa simil-wormiane. La densitometria conferma la riduzione della densità minerale ossea. Nei casi dubbi è possibile ricorrere all’esame del collagene sintetizzato da colture di fibroblasti provenienti da biopsia cutanea. Infine, lo studio del DNA permette di identificare i difetti genetici responsabili della patologia per confermare la diagnosi e ai fini di un adeguato counselling genetico.
Quali sono i trattamenti attualmente disponibili?
Ad oggi non sono disponibili trattamenti risolutivi per l’OI ma piuttosto farmaci capaci di contrastare il progressivo impoverimento osseo. L’attuale terapia standard si basa sui bifosfonati, farmaci che inibiscono l’assorbimento osseo determinando un aumento della densità ossea e una conseguente riduzione del dolore osseo e del rischio di fratture. Il trattamento chirurgico è essenziale per la correzione delle deformità scheletriche e della colonna vertebrale (in particolare la scoliosi), mentre il trattamento fisioterapico e riabilitativo precoce oltre che la terapia occupazionale, migliorano l’autonomia del paziente attraverso la promozione di attività fisica che aumenta le capacità funzionali e riduce il rischio di fratture. Grazie alla conoscenza sempre maggiore dei meccanismi patogenetici responsabili della malattia sono in corso di studio nuovi farmaci mirati il cui impiego potrebbe affiancarsi ai bifosfonati in un prossimo futuro.
è un progetto
realizzato grazie ad un grant incondizionato di